I periodi in cui leggo e traggo contentezza dal fatto che leggo sono i periodi che preferisco vivere. Ho imparato anche questo. Leggere volentieri mi ricarica e mi ispira, mi incoraggia e mi spinge verso gli altri in un modo speciale, leggero e profondo. Come con la macchina da cucire: serve il tocco leggero per non strappare il tessuto, ma serve la profondità perché la cucitura regga. In questa metafora non parlo di aghi, quindi non è perfetta, non è del tutto calzante. Me ne farò una ragione.
Parliamo di Paul Auster.
Paul Auster mi salva. Come le voci, mi salvano. Come la tua voce. Mi salva. Salvarsi è un'azione quotidiana, quando al posto del terreno per il prossimo passo hai il baratro come opzione. Non solo il baratro. Hai anche i sassi da calpestare, e attraverso quei sassi potrai arrivare in cima alla montagna.
Voglio abituarmi ad arrivare in cima alle montagne, non voglio arrivarci una volta sola e passare il resto della vita a raccontarmi quanto sia stato bello quella volta.
Paul Auster mi salva da sei mesi, e nel frattempo è morto. Bel tempismo, sì.
"Diario d'inverno" non è il miglior libro di Auster, credo. Ma è quello che mi serviva. L'ho comprato insieme a Euridice in una libreria grande, il giorno che siamo andate insieme alla manifestazione per la Gkn, in un giorno un po' afoso del maggio che è appena finito. Vederla perdersi tra gli scaffali è una delle immagini che tengo con me per i momenti in cui mi sento una mamma di merda.
Non lo leggete: lo troverete ripetitivo, sconclusionato, autocelebrativo, inconcludente. Non lo leggete. Non c'è trama e il finale è già stato scritto dalla realtà.
Oppure leggetelo: saprete di Auster e della sua scrittura.
O saprete di me. Ma che ve ne frega di Auster, e che ve ne frega di me.