Rovina
Da Ruina che più o meno significa precipitare
Rabbia.
Da Rabies, agire violentemente
Ribellione.
= Ri + guerra, cioè che ricomincia la guerra
Ci sono molti modi per definirsi.
Stasera uso un modo per definirmi che dice così.
Buona sera, sono una persona che vuole vivere nel mondo cercando di non rovinare la vita a nessuno, né vuole vedere la propria vita andare in rovina.
Questo non significa che voglio che tutt3 stiamo bene e felici perché viva la gente la trovi ovunque vai.
Questo significa che mi rendo conto di non poter fare sempre come mi pare, perché i rischi verso chi mi è vicino e verso chi mi vuole bene possono essere alti.
Questo significa anche che le mie relazioni condizionano le mie scelte, ma non devono guidarle al 100% perché sennò io rifinisco in un concone da cui non esco più.
Per questo ho scelto la parola "rovina": perché rovinare significa precipitare, finire in un buco che può essere fisico o mentale, più o meno profondo, e ad uscire dai buchi, si sa, ci vuole tanto tanto tempo e soprattutto tanta tanta fatica. Bisogna rinascere, poi. E si rinasce, eh, ci si fa, ma non è detto che si faccia volentieri e soprattutto si soffre che non è una massima aspirazione - a meno che tu non sia una passionista ma questa è veramente tanto un'altra storia e lasciamo stare.
Ecco.
Partendo da questo presupposto,
che non sono un'esperta praticamente di niente,
e nemmeno tanto appassionata, perché vado a momenti;
partendo dal presupposto che sono una persona che ha avuto delle esperienze comuni a molte altre persone
e partendo dal presupposto che non riesco a smettere di osservare i comportamenti delle persone
nel tentativo di comprendere le dinamiche che avvengono tra di loro,
quindi
partendo dal presupposto che sono una persona assolutamente non straordinaria
e dal presupposto che sono una persona assolutamente non ordinaria
voglio dire che nel corso della mia vita
- ho quasi 42 anni, quindi posso parlare della mia vita di persona adulta, non giovanissima, non giovane, semplicemente adulta -
mi sono ritrovata in situazioni
che mi hanno fatto arrabbiare tantissimo
e il modo in cui questa rabbia è venuta fuori
non è stato sempre positivo.
A volte è stato drammatico.
La quantità di energia che dobbiamo spendere fisicamente per arrabbiarci ci toglie un equilibrio che regola una serie di funzioni del nostro corpo. Rompere il nostro equilibrio ed arrabbiarci ci fa male, quindi, e come cantano i Coma Cose, la rabbia non va assolutamente sprecata.
Per non lasciarci andare a moti di rabbia un po' buttati là bisogna allenarsi.
Un po' come quella che vuole fare la maratona non è che esce di casa una mattina e comincia a correre finché non ha fatto 42,195 km, anche chi vuole evitare di sprecare la rabbia e indirizzarla bene si deve esercitare. E quindi deve leggere, ascoltare, vedere, sentire, confrontarsi, studiare... Anche correre. E specializzarsi.
Sono passata per associazioni e partiti politici, redazioni amatoriali e gruppi di amiche, amici e gruppi musicali e collettivi intellettuali vari, e ognuno di questi passaggi mi ha insegnato qualcosa. Nel merito e nel metodo. Ho fatto diversi lavori, l'ultimo l'ho cambiato meno di due anni fa. Anche i luoghi di lavoro sono stati formativi. Ma questa formazione è anche vita, quindi sono stati allo stesso tempo formativi e sfidanti.
Un po' come quando a scuola ti senti a disagio con gente che viene in classe con te per qualche motivo o con una o un prof. La scuola è quello stesso luogo dove impari a stare nei posti e da cui vuoi fuggire. Si creano contraddizioni di ogni tipo ovunque per ognun* di noi.
Ognuna di queste situazioni è quindi l'occasione per affinare la pratica del non sprecare la rabbia, dirigendola dove è più giusto e dove ha più senso secondo quelli che sono i nostri principi e le nostre convinzioni.
Per esempio ci sono situazioni in cui bisognerebbe arrabbiarsi ma si evita, perché sappiamo di essere troppo deboli.
E ci sono situazioni in cui bisognerebbe evitare di arrabbiarsi perché siamo in posizione di forza e rischiamo di fare molto male a chi invece ci sta facendo arrabbiare.
Una cosa fondamentale da fare è sempre provare a capovolgere il nostro punto di vista.
Se si parla di dinamiche tra un uomo e una donna, provare a invertire i ruoli.
Se si parla di un contesto tra grandi e piccoli, immaginarsi un contesto tra coetanei.
Se si parla di una persona che sta vivendo una condizione di povertà, immaginarla ricca.
Se si parla di un rappresentante delle istituzioni e un cittadino, provare a mettersi nei panni di chi deve scrivere una regola.
Spesso questo esercizio porta alla scoperta di confini mobili.
Per cui per esempio io non posso stare a torso nudo in casa con gli amici ma il mio compagno sì.
Ai bambini fino ai 12 anni non bisogna dare il telefono ma noi adulti ci ammazziamo di seghe su youporn.
Spesso una persona povera che ha l'abitudine di rubare è giudicata dall’opinione pubblica peggio di una persona ricca che evade le tasse con regolarità.
Le assurdità che si creano per via della burocrazia non rispondono al tentativo, a volte veramente un po’ troppo velleitario, di fare la cosa giusta in ogni caso.
Confini mobili.
Messa così è sbagliata.
Ma i confini rigidi sono ancora più sbagliati.
E qui siamo già ad una contraddizione: teniamola a mente. La contraddizione tra i confini mobili che provocano ed evidenziano alcune ingiustizie e i confini rigidi che invece le creano.
Alcuni esempi di confini rigidi che creano ingiustizie:
Migranti aspettano di salire su un treno merci a Huehuetoca, in Messico, il 19 settembre 2023 (AP Photo/ Eduardo Verdugo)
Toilette pubbliche divise per maschi e femmine
Muro tra Serbia e Ungheria
Ora pensiamo, invece, a tutte le volte che abbiamo sollevato un problema, magari dopo averci rimuginato, pensato, magari dopo esserci confrontate, dopo aver studiato e letto, dopo aver scelto, insomma, il modo e il tempo per entrare in un argomento e ci è stato risposto che
“I problemi veri sono altri”
O meglio
“I problemi veri sono BEN altri”.
Questo odioso comportamento che a volte riceviamo si chiama “benaltrismo” e cosa fa? Genera una classifica arbitraria di problemi, una sorta di top ten delle tragedie nel mondo e nella storia, e te la piazza davanti quando provi a dire qualcosa.
Spuntano fuori:
morti infantili
guerre
carestie
mafie
ecc.
Spunta fuori tutto l’armamentario delle piaghe dell’umanità se solo provi a sollevare un dubbio sul modo in cui ci si organizza in una classe a scuola, o sul lavoro o in altri contesti, anche familiari, spesso familiari. E il risultato è che tu che hai sollevato il dubbio torni a casa pensando che sai cosa?
Ero meglio se stavo zitta e mi facevo gli affari miei.
Ci ho preso dieci per niente.
Ma non è vero. C’è qualcuno che la prossima volta saprà che tu sarai lì a tenere quella posizione. E serve. Ci prendi dieci, è vero. Ti fai un po’ male. Ti becchi il benaltrismo. Ma serve. A volte a dire il vero non tanto, altre volte un po’ di più.
Ma se siamo in due, serve ancora di più. E in tre di più.
E se non comincia nessuno non siamo mai più di uno.
Perché poi ti vengono a cercare, magari ti chiedono aiuto. E tu scopri che non solo non sei sola, ma puoi anche far sentire altre e altri e altru meno sol3.
È anche una cosa che dà soddisfazione umana, quindi win win.
Ecco accanto a questa battaglia che dobbiamo dobbiamo dobbiamo fare contro il benaltrismo ce n’è un’altra, che è quella contro la monotematicità.
Fissarsi su un argomento ci porta a prendere cantonate e ad isolarci. Vero è che essere attivist3 significa anche mantenere una certa coerenza con la battaglia che si è scelto di portare avanti. Ma l’attivismo può anche passare da momenti di leggerezza.
Quindi se siamo in palestra nello spogliatoio e una compagna del corso di ballo ci dice qualcosa che non ci torna, non importa che puntualizziamo su tutto. Magari troveremo un’occasione giusta per dirle il nostro punto di vista senza scontrarci con una sua frase.
Se parliamo con un genitore di un compagno di nostra figlia, con un genitore con cui non condividiamo alcune idee, è completamente inutile che lo attacchiamo in malo modo umiliandolo per cinque minuti davanti ad altre persone. Meglio esprimere in maniera generale quello che pensiamo rivolgendoci anche a tutte e tutti gli altri, altrimenti diventa una battaglia uno contro uno e serve a pochissimo.
E soprattutto, se vediamo qualcuno che porta avanti un discorso che non ci appassiona, perché ci sembra secondario, proviamo a immaginare che non lo sia.
Proviamo a capire quanto conta per questa persona il discorso che sta facendo. Chiediamogli perché ci tiene. Cerchiamo di capirlo, di immedesimarci. Perché le battaglie si devono tenere insieme.
E spesso essere ambientalisti è vicino all’essere animalist3. Essere femminist3 è vicino all’essere ecologist3. Far parte dell’universo LGBTQ+a è vicino a tante altre appartenenza e battaglie, e mescolarsi e ragionare insieme è la chiave perché la nostra battaglia e il nostro attivismo abbiano la vita più lunga possibile.
Ecco, c’è anche qui una contraddizione: la contraddizione tra il non voler dire “ci sono altri problemi” e il considerarli tutti, invece, questi altri problemi. Chi fa una classifica sbaglia, ma chi non considera altro che un tema anche.
Unica risposta, a entrambe le contraddizioni che abbiamo visto?
Siamo noi, eccoci.
A faticare per capirci, per ascoltarci, per farci capire. A sentirci, annusarci, a mangiare e bere insieme, a non mangiare, a non bere insieme. A leggerci. A cantare. A guardarci. A non fare troppo caso l’un3 all3 altr3.
A non arrenderci alle regole che valgono sempre, ma nemmeno al caos che ci schiaccia. A concederci spazi di esplorazione che non ci definiscano, ma ci decomincino, semmai.
(Grazie al mio psicoterapeuta che mi ha fatto capire il concetto di esplorazione, mi ha disintossicata dalla parola ‘brava’ e mi ha ricordato, più volte, che non sono affatto una persona straordinaria, e non sono affatto una persona ordinaria).