Era giunto il momento di non occuparmi più della possibilità di incontrarlo e che lui incontrasse le mie figlie. Il costo di questa precauzione era diventato troppo alto. Continuavo a sapere cosa faceva, con chi, continuavo a vedere troppe cose.
Ora c'è ancora più spazio per me. "Visto quanto spazio si è liberato?"
Davvero. Il valore di questa frase, che mi è stata detta durante una delle prime sedute di psicoterapia post-scomparsa, l'ho capito mesi dopo.
Avevo rinunciato a molto di me. A niente per loro, però. Non gli è bastato, per questo si è dovuto smascherare.
Per loro mi sentivo in colpa. "Siete un pacchetto impegnativo", mi dicevano, mi dicono. È vero, se vedi le persone come pacchetti.
Per loro mi sentivo in colpa, così lasciavo perdere le mie cose e mi concentravo su di lui. Lui ora dice che gli impedivo di fare quello che voleva.
Mi devo stupire che adesso continui a mentire, dopo tutte le bugie che mi ha detto mentre abitava in casa mia? No, non mi stupisce affatto.
Non posso stupirmi di niente. Non posso stupirmi più di niente.
Per questo non voglio sapere più niente. Non ditemi più niente, non chiedetemi più niente, non parlatemi più di lui. Liberatemi, se mi volete bene liberatemi dalle occasioni di pensarci, di pensare a cosa è stato, a cosa ha rappresentato per me per quasi quattro anni.
Le persone che oggi riescono a stargli vicine sono quelle che lo conoscono bene e che sanno di non potersi fidare di lui. Lo tengono vicino, ma senza impegno. Per questo mi guardano con gli occhi pieni di pena, si chiedono "Ma come avrà fatto, lei, a fidarsi così?".
Oppure le persone che oggi riescono a stargli vicine sono quelle che gli credono. Le nuove comparse della sua nuova vita liberata. Lui si racconta come un evaso, ma è stato e sarà ancora il carceriere di sé stesso, finché continuerà a puntare il dito contro le persone che ha avuto vicine e che lo hanno amato, piuttosto che accorgersi di essere mosso dalla smania di essere migliore di qualcuno, piuttosto che di stare bene.
Migliore del mio ex. Migliore del suo collega. Del suo capo. Migliore di suo padre (e qui viene da ridere). Migliore del suo amico, che ha trattato male la sua compagna. Migliore del suo vicino di banco. Migliore tra gli allievi, migliore tra gli amanti. Migliore di quello lì, di quello là. Solo adesso, alla luce del niente che ha dimostrato di avere dentro al cuore, capisco che non aveva senso dirgli di cercare quello che lo faceva stare bene. Perché lui voleva solo sentirsi "migliore di", e appena raggiungeva quel piccolo inutile traguardo ne puntava un altro identico, e via così, avanti, in una spirale senza fine in cui la felicità non può esistere.
Io ho creduto alla versione che, stravolta dalle mie domande, stanca della mia sofferenza nei momenti di crisi, diceva che mi amava e che ero io che non capivo. Non una spiegazione, non un racconto, non un chiarimento, mai. Solo una dichiarazione di intenti. Convincente, eh. Una bella prova attoriale, non c'è che dire, aiutata dal fatto che lo sgomento era autentico: era evidentemente stanco. E aveva paura di lasciarmi o che lo lasciassi, certo. Ma non perché temesse di soffrire senza di me. No. Temeva che la sua reputazione peggiorasse. Che cominciasse ad essere lui un termine di paragone negativo. D'altra parte, chi ragiona così o si sente da una parte o si sente da un'altra. Ora può averne la certezza. Cerca conferme tra le sue nuove comparse, ne troverà, è ovvio. Il mondo è pieno di persone che hanno voglia di perdonare gente di merda che non gli ha fatto nulla, solo per sentirsi migliore. Ma se cercherà conferme nell'universo dove ha vissuto per questi quasi quattro anni, troverà silenzio e imbarazzo. Anche un po' di fastidio.
Io non sono più il mezzo attraverso il quale lui si affanna a sentirsi migliore di una serie di persone. Adesso quel ruolo ce l'hanno altre ed altri. Buona fortuna, a tutte e tutti loro. Vi auguro di non essere sceme come me.