Giacomo sono ferita. Questa scomparsa è per me come una specie di grossa tigre che ha provato ad agguantarmi. Sto sopravvivendo ma resterà il segno.
Mi voglio tatuare sulle costole questa cosa.
Ma mica vorrai essere didascalica, mi risponde lui. Mica vorrai fare una tamarrata, sono le sue parole.
Se avessi voluto essere didascalica non avrei scelto te.
Fissiamo di parlarne un po’ prima, Vieni a casa mia, mi fa, si fa colazione e poi a mezzogiorno e mezzo andiamo allo studio.
Mi incammino verso la WienerStrasse, trovo casa sua, conosco la sua amica con cui parliamo della sua ultima crush in Italia, ridiamo di noi e del genere maschile, femminile e altro, io mangio una fetta di torta al cioccolato vegana con un lunghissimo caffè. Poi ci dividiamo.
Io e Giacomo verso lo studio, lei a comprare un necessario nuovo paio di scarpe.
Lo studio è molto accogliente, si vede che è stato ristrutturato da poco.
Percorrendo la SkalitzerStrasse si incontra il civico 51. Per entrare si scendono pochi scalini e si apre una robusta porta a vetri. Appena si entra, ci si trova davanti al tavolo della reception. Le pareti sono a mattoncini e i soffitti non sono alti, ma hanno delle volte a crociera molto eleganti.
A sinistra si trovano due divanetti con dei cataloghi. Sparsi per il salone, che è un open space, ci sono i varie nicchie dove tatuatrici e tatuatori fanno sistemare i loro clienti per scriverci sopra.
Entriamo.
Il ragazzo che sta alla reception mi fa compilare un modulo che mi informa di varie cose, tra cui che non devo essere sotto l’effetto di alcol o droghe. Non ho bevuto nemmeno un bicchiere di vino e ho dormito circa nove ore.
Mi sento a posto. Firmo tutto. No, non soffro di pressione bassa. Sono consapevole che un tatuaggio è qualcosa di permanente. Eccetera eccetera.
Giacomo prepara il suo tavolino con tutti gli attrezzi, io ho un po’ paura ma non vedo l’ora di iniziare.
Mi tiro su la maglia. Vedi, gli dico, vedi che qui ci sono i due calabroni e qua ci sta bene qualcosa, sul lato opposto.
Lui mi guarda e pensa.
Prende dei pennarelli e mi comincia a scrivere sulle costole. Fa dei freghi. Mi chiede di guardarmi allo specchio. Secondo me potrebbero essere più di tre, gli dico. Ne aggiunge uno.
Sarà più grande di quello che pensavo.
Curiosi di vedere cosa esce fuori, ci posizioniamo. Io sul lettino, sul fianco sinistro, col braccio destro che abbraccia la testa per tirare al massimo la pelle che dovrà essere tatuata.
Lui sullo sgabello accanto a me.
Mi dice che sarà doloroso.
Gli rispondo che spero di reggere.
M., un amico di M., che mi ospita qui a Berlino per questa mia prima settimana di rinascita, racconta che ogni tanto sente ancora quel dolore, quando cambia il tempo, come se il corpo non riuscisse più a dimenticare quel male lì.
Tutto questo mi persuade molto.
Del resto, io non potrò mai dimenticare quel male lì.
Quel male lì. è proprio ciò che voglio celebrare.
Giacomo comincia. Si va.
Prima disegna i contorni di questi tre o quattro freghi, e a me pare tutto ampiamente sopportabile.
Appena finisce questa prima velocissima fase mi dice: com’è?
Per ora bene, gli rispondo.
Sono andato leggero, mi informa. Aggiunge che dopo sarà peggio. E infatti è proprio così.
Dopo il contorno c’è il riempimento e dopo il riempimento c’è la sfumatura.
Per il riempimento usa un ago parecchio massiccio. Per fare prima, mi dice.
Quando arriva vicino allo stomaco mi viene quasi da vomitare. Quando sento la pelle vibrare inesorabilmente e il dolore è dappertutto: dietro la schiena, sul braccio, sui polsi.
Mi reggo forte un avambraccio. Mi ritrovo a denti strettissimi. Mugolo un po’, perché mi fa male. Nelle brevi pause mi lamento.
Questo era interessante, gli dico.
Lui risponde, Vero?
A un certo punto mi dice
Io sono un portatore sano di male
Io gli rispondo
Mi faccio fare così male solo da te perché ci si vuole bene.
Rilancia:
Goditela
Goditela, mi dice, perché non capita tutti i giorni di poter soffrire così.
Non capita tutti i giorni.
Non capita nemmeno in tutte le vite.
Mentre l’ago grosso indugia tra una costola e la ciccina morbida della pancia, io mi chiedo quando finirà. Però c’è una sensazione di piacere, di soddisfazione, molto profonda, che fa sì che io quest’esperienza me la goda davvero.
Perché questo dolore che sento ce l’avevo già, era dentro di me ed è come se Giacomo me lo stesse tirando fuori. Come se me lo cavasse dalla pancia e lo portasse via.
Quel dolore sordo, in potenza, aspettava da due mesi questo momento, il momento di esplodere, di fiorire, di esplicitarsi, di venire fuori.
Perché sono due mesi che se n’è andato.
A che punto siamo?, gli chiedo.
Lui tace e gli spunta un sorrisetto.
Siamo almeno a metà?, gli chiedo
Lui risponde: No, siamo a due quinti.
Alzo la testa per vedere a che punto è.
Ha colorato le strisce più basse, mancano ancora quelle sopra.
Mi rassegno. Mi fa male.
Le gambe sono tese, le braccia tese, i denti stretti, le spalle tese, Giacomo mi suggerisce di respirare profondamente ma ci sono dei punti dove pigia che se ci respiro mi contorco senza controllo. Mi devo reggere.
Quando arriva sulle ossa sotto l’ascella, paradossalmente il dolore è sopportabile. Siamo in fondo al riempimento, poi ci sono solo le sfumature.
E le sfumature sono come i fuochi d’artificio alla fine: i più grossi e i più rumorosi se li serbano tutti insieme.
Mi sembra di esplodere. Sento la macchinetta anche sulle labbra, sulla fronte, sul collo. Sento male dappertutto e mi tremano le gambe dalla stanchezza.
Siamo in fondo, ma è durissima.
E ancora mi concentro e penso: era così che stavi? Sì, al limite di quello che potessi sopportare senza svenire. Era proprio così che stavo, il giorno che te ne sei andato dopo avermi promesso di comprare con me una casa dove abitare insieme.
Era proprio così che si sta quando si infrangono i sogni. Tra lo sforzo e l’energia della rabbia e la stanchezza e la pigrizia del dolore.
Quando Giacomo mi dice che posso alzarmi sono come Dresda bombardata. Mi rendo conto che devo alzarmi lentamente. Mi gira un po’ la testa. Vado piano. Giacomo mi offre delle caramelle dolci ricoperte di cioccolato. Tipo M&M’s.
Mi rimettono al mondo. Mi accorgo che ho fame. Sono le due e mezzo.
Due ore ci abbiamo messo.
Vado a vedere il mio nuovo tatuaggio allo specchio grande nel mezzo al salone. Mi guardo, lo guardo. È bellissimo.
È perfetto. Giacomo, è bellissimo.
Allo specchio mi vedo con un nuovo disegno sul costato. Segue armoniosamente la linea del mio corpo. La accentua, sembro più bella, sono più bella.
Mi sento più bella e più forte.
Lo sono.
Il ragazzo della reception torna con una macchina fotografica.
Lui e Giacomo accendono le luci e le posizionano.
Mi spoglio, mi copro il seno con un braccio, mi metto in posa e sogno il momento in cui questo mio nuovo tatuaggio sarà guarito e io sarò libera di fotografarmi nuda per mostrare al mondo questo mio stare, questo mio essere. Questo mio sentire.
It’s bleeding a lot, dice Reception a Giacomo, can you clean it please?
Sto sanguinando. Mi brucia tutto. Sono felice. Ce l’ho fatta, di tempo e di energie.
Sono venuta a Berlino a farmi un tatuaggio per tirare fuori il dolore che avevo dentro.
Un amico è riuscito a farmi vivere questa esperienza e lasciarmi, contemporaneamente, il segno di questa ferita invisibile che invece io volevo mostrare a chiunque incontrerò. Per sempre.
Lui aveva tredici anni, io quindici. Io facevo già il liceo e lui la terza media. Lui era la versione adolescente di sé stesso, ma era già sé stesso. Io bo. Mi fece conoscere i Marylin Manson e i Tura Satana. Avrei cominciato ad ascoltarli per pomeriggi interi, soprattutto i secondi perché la cantante era una donna e mi ci immedesimavo di più.
Non era e non sarebbe stato mai il mio genere, eppure il fatto che quei gruppi mi legassero a lui mi faceva sentire protetta. Protetta e protettrice di una sensibilità infinita, nascosta dietro abiti neri e sguardi minacciosi.
Nel tempo ci siamo persi di vista più volte, ritrovati sempre per caso. Gli ho sempre voluto bene. A un certo punto lui è diventato un tatuatore, io ho cominciato a tatuarmi e questo ci ha portati a passare del tempo insieme.
C’era anche Dkerjffjs quando Giacomo mi ha fatto il suo primo tatuaggio.
Quel giorno, secondo Dkerjffjs, ci eravamo messi insieme. Mi aveva già riempito di stronzate, stronzate che mi sarebbero fiorite nei mesi successivi.
Chi semina vento raccoglie tempesta, chi semina bugie raccoglie un disastro.
Il disastro però si è abbattuto anche su di me, che di bugie non ne ho seminate.
Lo amavo. Era vero.
Volevo costruire un percorso per non farci male e arrivare a stare bene. Era vero.
Mi arrabbiavo molto, perché era vero.
Mi piaceva il suo odore, era vero.
Credevo di potergli fare del bene, era vero.
Lo credevo davvero.
Se non fosse che ora mi ha fatto tutto questo male lo crederei ancora. Ma ora non più.
Ora non più, e io non so più dove sono nascosta.
Sono in SkalitzerStrasse, sono al Coretex, sono al BioCompany, nella sinagoga nuova, a contemplare il vetro che mostra i resti della sinagoga distrutta durante la seconda guerra mondiale.
Sono sulla Torre della Televisione, sulla Terrazza del Bundestag. Sono sui ponti che attraversano la Sprea e nei ridicoli musei che parlano di Berlino come se fosse una macchietta della storia.
Sono all’Einstein cafè, ad incontrare un signore che partecipa alla vita associativa di un’associazione italiana nella capitale della Germania.
Sono all’Alaska. Sono nei sogni di chi mi vede al Bergain, dove no, non sono stata, ma cosa ci facevo.
Sono nei libri che leggerai, sono nelle poesie che scriverai, sono l’aria che non afferri tra le tue dita.
Sono uno spiritello di Miyazaki.
Sono la sirena di quest’ambulanza straniera che corre verso l’ennesimo ubriaco di questo sabato sera ancora al suo esordio.
Sono nella gratitudine dopo che mi hai detto A prima vista mi sembra uno sgraffio di una fiera.
Lo è.
E sono anche nella gratitudine del Sono delle piume, delle lacerazioni.
Lo sono.
A me sembra un’ala, una fiamma, anche.
E non è finita qui la metamorfosi di questo mio dolore in meraviglia, in bellezza, in relazione, in cura.
Non è finita qui. C’è tanta vita in mezzo, ormai, ma non è finita qui.
C’è tanto stupore, ancora, ma c’è anche tanto altro stupore per le scoperte che mi faranno dire Grazie, Universo, per avermi portato qui.
Come dice Latronico, a volte si pensa che la vita sia quello che fai piuttosto che quello che ti accade.
Giacomo, giustamente, dice, è un po’ entrambe le cose.
Io girerò il mondo e sarà lo stesso mondo che girerai tu. Sembra impossibile, vero?
Prenderò gli stessi aerei, leggerò gli stessi libri, vedrò gli stessi film.
Quando finalmente anche l’ultima emozione forte avrà finito di bruciare si vedrà solo il deserto e si sentirà solo un silenzio spettrale. Sarà il rumore dei resti di questo macello del mio cuore.
Ma ogni volta che ballerai lo sentirai sotto le scarpe. O sotto ai piedi, visto che ti piace tanto stare scalzo.
Dio voglia che tu lo senta sotto le scarpe anche mentre cammini. Anche mentre ascolti in piedi il rumore delle scale mobili. Il mio cuore tra gli ingranaggi sottoterra.
Cic, cic, cianf, squinch, stritolinch.
Non avrò un sabato libero in tutto il resto di questo mese.
Bene, male.
Tutto va a rotoli, tutto torna.
Spero di incontarti di venerdì, o magari andiamo a pranzo di domenica. Andiamo sul mare? Dai, andiamo sul mare?
Mi porti al mare? Mi abbracci come se fosse un tuo desiderio?
Mi dici una poesia a memoria?
M’innamori per un giorno?
Ti innamori per un giorno?
È l’unica cosa che ci resta: amarci per quello che ci è concesso.
Poco, pochissimo.
Per questo non buttiamolo via.
Novembre 2025. Foto del tatuaggio guarito.